L’8 Marzo è considerato un’occasione di festa. Riviste e social la dipingono insistentemente come una ricorrenza di cui goderne l’atmosfera lieta e da adornare con cene e regali. Ma l’8 marzo è un giorno di resistenza.
Clara Eissner Zetkin è stata la prima politica e femminista a proporre nel 1910, al Congresso di Copenhagen, l’istituzione di una Giornata Internazionale della donna. Ella si mosse a partire dal suo pensiero profondamente indipendente e rivoluzionario fino ad agire in scala globale, per rivendicare che le donne acquisissero coscienza e ruoli significativi nella vita amministrativa della società, anziché restare relegate alle questioni familiari. Fu ispirata da una serie di scioperi delle lavoratrici: il 23 febbraio 1917 (data da calendario gregoriano russo – in Occidente 8 marzo) iniziò una potente manifestazione guidata dalla femminista russa Alexandra Kollontai, essenziale per il corso degli eventi successivi che portarono all’abdicazione di Lo zar Nicola II e la rivoluzione russa. In seguito all’abdicazione dello zar, si poté assistere alla creazione del primo governo che concesse alle donne il diritto di voto. Il fondatore del Partito Comunista Russo Vladimiro Lenin dichiarò la Festa della Donna una festa sovietica ufficiale nel 1917, seguito dai comunisti in Spagna e Cina. Durante il Congresso di Gotha, Zetkin portò sul tavolo la proposta di organizzare un sistema di fiduciari del partito per pianificare la lotta politica delle donne in tutti i centri regionali del Paese e nel 1920 Clara Zetkin venne eletta Presidente del Movimento internazionale delle donne socialiste.
L’8 marzo dovrebbe essere una giornata duramente motivante, una giornata che serva come monito per ricordare che dobbiamo ancora combattere per l’uguaglianza sociale e solo in seguito al suo raggiungimento pensare di poter festeggiare (è stato stimato che per colmare il divario di genere e raggiungere la parità tra uomini e donne occorreranno ancora dai 100 a 130 anni). Invece è stata strategicamente svuotata del suo significato più profondo e sovversivo, politico a attivista. Questo è ciò che accade in ogni lotta contro le disparità, anche in quella contro i soprusi legittimati sui corpi degli altri animali.
L’istanza antispecista è infatti costantemente edulcorata e ridotta ad un potpourri di ricette a base vegetale e feste allegoriche, che dimenticano, a volte di proposito a volte non, le vittime animali e gli abusi che subiscono. Come attivistə di un collettivo antispecista, troviamo fondamentale mettere in discussione la gerarchia sociale anche da un’ottica di discriminazione di specie e sottolineare che ottenere uguaglianza, all’interno e all’esterno delle proprie società, non è possibile senza la distruzione dell’egemonia dei gruppi di potere poiché le forze del sistema etero-patriarcale cis e le sue strutture di classe, razzismo, genere e specie fanno perno sui medesimi meccanismi di oppressione.
La banalizzazione delle lotte politiche è pratica assai diffusa come antidoto contro ciò che gli attivismi e i movimenti di autoderminazione e liberazione possono portare. Società egualitarie fanno paura a quel suprematismo umano da smantellare.
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