Quando si affronta la perdita di un individuo, le persone si trovano spesso a condividere lo stesso dolore, la stessa tristezza e la stessa vulnerabilità. Questo senso di comunanza nel dolore può portare a un’empatia reciproca e a una maggiore solidarietà tra chi ne è coinvolto. Il processo di elaborazione del lutto può anche rinforzare i legami preesistenti tra gli individui e portare alla formazione di nuove connessioni all’interno di una comunità o crearne di nuove.
L’elaborazione del lutto è un processo che la società umana riconosce soltanto alla propria specie. Ed è per questo che la morte di un animale non-umano è priva di tale considerazione. L’altro motivo è che quando un corpo è considerato merce il lutto non esiste.
Questo post lo dedichiamo al nostro compagno Vittorio del Rifugio Alma Libre e a tutti quei viventi di altre specie che hanno (avuto) la possibilità di vivere e morire liberi.
Ma soprattutto il pensiero va a chi invece ogni giorno vive rinchius*, umiliat*, fatt* a pezzi e mort* senza possibilità di riscatto e di autodeterminazione.
La comunità umana ha uno strano rapporto con il lutto, lo elabora a seconda della propria cultura o religione: ci sono popolazioni che inscenano rituali festosi e altre invece che appesantiscono la scomparsa di una persona cara attraverso una veglia fatta di preghiere e penitenze. Insomma, anche se cerchiamo di decentrare la morte dalla nostra vita allo stesso tempo la sacralizziamo quando perdiamo un affetto.
Nessuna persona metterebbe in discussione l’elaborazione di un lutto umano. Al contrario quando si accenna alla morte di un animale di altra specie le reazioni tipiche vanno dalla minimizzazione alla derisione, questo perché a loro non viene riconosciuto uno status sociale di vicinanza all’umano e dunque non meritevoli di un spazio temporale in cui il convivente umano possa elaborare tale perdita.
Il rifiuto del lutto avviene soprattutto perché culturalmente la specie umana ha dovuto creare una voragine per separare se stessa dalle altre specie animali. Questo vuoto è servito e serve tuttora ad affrancarsi per continuare il proprio dominio sull’altro. Dunque possiamo notare che certi lutti hanno più valore di altri e altri ancora non valgono nulla. Pensiamo per un istante alla condizione di tutti quegli individui segregati negli allevamenti, negli stabulari, nelle prigioni di zoo e acquari.
La loro morte viene negata così come l’elaborazione del lutto poiché questi non posseggono un “volto” o un riconoscimento tale da poter essere considerati corpi degni di lutto. Al contrario essendo classificati come merce, in quanto oggetti consumabili, non esiste la necessità di provare dolore per loro. Invece sappiamo bene quanto sia insopportabile il continuo pensiero di vite smembrate, umiliate e smontate quotidianamente per chi lotta al fianco degli altri animali. Questo lutto resta incomprensibile ed inconcepibile, agli occhi della società specista, ancora di più rispetto alla morte di un animale non-umano con il quale si è condiviso parte della propria vita (i cosiddetti “pet”).
Un altro dei motivi che ci spinge a pensare al perché il lutto non viene riconosciuto agli altri animali riguarda l’instaurazione dei legami e la creazione di comunità multispecie.
Riconoscere un individuo di altra specie come soggetto e non come oggetto ribalta l’idea stessa che sta alla base dell’oppressione e che ne permette il funzionamento.
Non potremmo mai pensare di vendere, smontare o vivisezionare una persona umana, a maggior ragione se con questa abbiamo creato un qualche tipo di legame.
Eppure nei rifugi di animali liberati avviene spesso che alla morte di un individuo, con il quale si sono instaurati relazioni sociali e rapporti affettivi, la devastante macchina antropocentrica verrà a saldare il conto, prima con gli addetti ASL che sezioneranno il corpo per le analisi di routine, e successivamente attraverso lo smaltimento di quel corpo considerato rifiuto. Questo è un ulteriore monito per ricordarci che i soggetti di altra specie nascono merce e moriranno in ogni caso come tale, anche se riescono a vivere fuori da gangli del profitto e dell’oppressione.
Bisogna dunque rivendicare culturalmente questo tipo di relazioni, bisogna poterne parlare creando ulteriori riflessioni per far sì che l’elaborazione del lutto non venga considerata un atto eccentrico relegato alle “anime belle” cui il movimento animalista autodefinisce chi si muove solo per compassione. Bisogna rivendicare che una volta fuori dalle maglie del sistema specista gli altri animali che vivono nei rifugi non devono finire in discarica in quanto ritenuti scarti di produzione bensì avere la possibilità che la propria morte possa essere elaborata in modo adeguato da parte di chi ha vissuto con loro (Finché esisteranno i rifugi, luoghi indispensabili di lotta e resistenza animale, sappiamo che quest’ultima rivendicazione è più una toppa provvisoria che una soluzione definitiva).
Concludiamo parafrasando Marco Reggio e Massimo Filippi, in Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali:
“Dobbiamo rivendicare con forza che un dato essere, la cui esistenza ci è stato insegnato a non compiangere, è degno di lutto e, dunque, è una vita. Una rivendicazione del genere è gravida di rischi, ma si porta appresso la possibilità di rovesciare l’intero ordine sociale, la possibilità di scoprire nuove forme di essere-insieme.
Noi che compiangiamo gli altri animali, in particolare quelli uccisi dagli umani per gli umani, dobbiamo accettare di correre un rischio enorme per il fatto stesso di riconoscere tale lutto, nella speranza che più ne parliamo, mettendo a repentaglio la nostra intelligibilità sociale, più frequentemente potremo incontrare persone disposte a far proprio il nostro lutto e a farsi carico della perdita di questi altri.”