NON CANI, MA UOMINI ADDESTRATI ALLA CULTURA DELLO STUPR*

“La carne è carne”, ha affermato uno dei ragazzi che ha commesso l’ultimo stupro di gruppo di cui i media stanno parlando in questi giorni. “Mi sono schifato, ma la carne è carne”. Per loro la vittima prescelta non era una donna, ma carne da consumare e di cui gettare ciò che ne sarebbe rimasto in seguito.

Così hanno fatto. L’hanno disossata e ne hanno abbandonato ciò che restava: un corpo sfinito e un’anima svuotata. “Eravamo 100 cani su una gatta”, ma non sono stati cani con il loro istinto di protezione del territorio o di predazione per esigenza a commettere l’abuso. Hanno chiesto al barista del locale in cui si trovavano di farla ubriacare perché poi – ci avrebbero pensato loro -. Hanno fatto sì lei che non fosse in grado di reagire e calcolato tempi e modalità d’azione e infine si sono spartiti il suo corpo. Una violenza a freddo, premeditata; come tutta la violenza fisica e verbale che subiscono le donne.

Noi donne veniamo frammentate e consumate proprio come “pezzi di carne”, a seguito di un vile processo di invisibilizzazione delle soggettività e di cancellazione della nostra autoderminazione, che da esseri fisici nella nostra interezza ci trasforma in prodotti finali, così come accade agli animali d’altra specie.
Questo meccanismo, che porta all’assenza del referente/vittima, autorizza e giustifica gli abusi. Dietro al consumo di un corpo impossibilitato nel difendersi, c’è quindi prevaricazione.

Il cacciatore individua la sua preda, l’allevatore lavora sull’annientamento dell’individualità del soggetto, il cui corpo sarà poi sminuzzato dal macellaio o logorato dal vivisettore. Il predatore umano, nella sua agghiacciante lucidità, è cacciatore, allevatore, macellaio e vivisettore.
Eppure i soprusi, qualsiasi sia la vittima, vengono raccontati come fiabe popolari eccezionali e casi isolati, atipici, a se stanti, anziché come circostanze sistemiche.
La normalità con cui (…“non tutti gli”...) uomini parlano dei corpi delle donne e di quelli degli animali non umani, spacchettandoli in più parti, spiega le successive azioni di possesso, annichilimento e abuso.

Se da una parte assistiamo alla deumanizzazione della donna per renderne il corpo fruibile come quello di un animale d’altra specie; dall’altra assistiamo all’animalizzazione di chi ne abusa, come se gli animali umani non fossero capaci di compiere atti orribili in modo razionale, ma fossero in preda ad un raptus “bestiale”.
L’animalizzazione la possiamo riscontrare in maniera costante e ripetuta come pilastro di diverse narrazioni, perché crea simbolicamente differenze strutturali comode alla narrazione stessa. La troviamo nei testi che parlano di categorie discriminate: gruppi o individui umani o non umani descritti come “animali” per riportare alla mente inferiorità fisica e cognitiva, brutalità, caratteristiche cui dare un’accezione negativa, lontana dalla perfezione umana.
La possiamo trovare anche nelle migliaia di immagini quotidiane di donne sessualizzate raffigurate come animali d’altra specie o, appunto, come carne… per abituare lo sguardo maschile alla nostra passività; come negli zoo di animali d’altra specie, vetrine di figure svuotate e schiacciate in esposizione.

Animalità dunque come qualcosa di inferiore rispetto all’umanità; irrazionale e dunque da temere, addomesticare, controllare, violentare, vendere, marginalizzare, stigmatizzare, sopprimere, possedere. Siamo stanchə della narrazione che vede azioni programmate, calibrate, estremamente razionali e calcolate, raccontate come atti istintivi di Animali in preda agli impulsi. Chi stupra, chi uccide una donna non è una “bestia” ma un umano che segue gli schemi di una cultura costruita su radicate logiche di dominio. Chi sfrutta e uccide animali d’altra specie segue gli schemi di una cultura costruita su radicate logiche di dominio.

Logiche differenti ma coese, che prendono i bambini per mano accompagnandoli verso un mondo in cui il rispetto delle volontà, del consenso e dell’autorizzazione ad invadere o meno gli spazi dell’altr* non sono prese in considerazione e di cui diverranno a loro volta artefici.
Il risultato è una società gerarchica, disparitaria, in cui non a tuttə è concesso di vivere nel mondo come vorrebbe.

E il mondo non è un posto sicuro.
Paura, sfiducia e rabbia si alternano in una giostra di frustrazioni. Vogliamo una società giusta, che può essere ricostruita partendo da un racconto veritiero di quella presente, per poter analizzare e contrastare le dinamiche di potere taciute. E da lì ci sarà un immenso lavoro quotidiano da fare, un lavoro politico di riassetto culturale, sociale ed educazionale.
Nello specifico, a nostro avviso:

– costruzione dell’uguaglianza di genere all’interno degli ambiti educativi e lavorativi;
– inserimento di materie scolastiche che trattino educazione sessuale, civica, interculturale e antispecista;
– formazione obbligatoria sulle questioni sopracitate per professionisti dell’educazione, delle amministrazioni, della sanità e dell’applicazione della legge;
– informazioni accessibili sulle tematiche di parità e consenso;
– scardinamento dei ruoli di genere all’interno di gruppi sociali, famiglie d’origine o acquisite e rieducazione al rispetto reciproco;
– manifestazioni di dissenso nei confronti di ingiustizie messe in pratica da cittadinə, forze dell’ordine e apparati governativi;
– denuncia di contenuti mainstream che promuovono stereotipi di genere e che propongono una comunicazione inappropriata rispetto alla violenza sessuale;
– presa di posizione collettiva per un cambiamento solido, in opposizione alle attuali tradizioni discriminanti.

Siamo stanchə di provare una quotidiana sensazione di impotenza e di respirare oppressione e svilimento. Vogliamo vivere un mondo più sicuro, che sia luogo da abitare senza doverci guardare le spalle temendo l’ennesimo stupro, l’ennesimo femminicidio, l’ennesimo atto di prevaricazione nei confronti di corpi animali o animalizzati. Vogliamo essere tuttə corpi vivi e liberi, non più Carne e non più Gattə depredate delle nostre identità.

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