Quest’anno l’8 marzo rendiamolo antispecista. Decostruiamo la visione antropocentrista del femminismo, che vede la donna umana come l’unica categoria oppressa.
Il legame tra maschilismo e specismo è strettissimo: un metodo efficace per oggettivare le donne è declassarle a “cagne”, “troie”, “galline” o “vacche”: così facendo è possibile mettere in atto stupri sistematici e uccisioni senza che l’abusatore possa sentirsi in colpa. Nel caso specifico dello stupro poi c’è un’ulteriore analogia con gli altri animali: le donne non vengono più viste come soggetti nel loro insieme bensì come parti anatomiche separate. Parlare di donne in termini di “tette”, “culo”, “bocca”, “cosce”, “fica” le mette nella stessa posizione, anche se metaforica, degli animali, i quali invece subiscono questa stessa frammentazione anche fisicamente attraverso lo smembramento dei corpi. Infatti non si parlerà più di gallina, maiale, vitello, ecc. bensì di “petto”, “coscia”, “lonza”, “cuoio”, “prosciutto” e così via.
Il femminismo mainstream antropocentrico è un femminismo di facciata: l’intersezionalità è la chiave del successo di un movimento. Dobbiamo necessariamente unire le lotte: non esiste una scala di importanza tra oppressioni, e pensare il contrario significherebbe accettare la presenza di una differenziazione tra specie, classi ed etnie. Il corpo di una femmina di altra specie non vale meno di quello umano. Il sistema riproduttivo femminile nell’industria alimentare è sfruttato sotto ogni punto di vista e i corpi degli altri animali non più produttivi diventano oggetti inanimati.
Citiamo a questo punto, una lettura esemplare per quanto riguarda l’intersezione tra femminismo e antispecismo: “Carne da Macello (la Politica Sessuale della Carne)” di Carol J. Adams, manifesto dell’unione di due lotte per la liberazione guidate da analoghi principi.
Che sia un 8 marzo di intersezionalità, unione e lotta.
Post realizzato, e pubblicato su Instagram e Facebook, in collaborazione con Attivismo Erbivoro