Durante una delle proiezioni del documentario Food For Profit, è stata portata nella sala una pecora “salvata” da un allevamento.
La pecora, bardata di fiocchetti e pannolino, appare nelle foto come una sorta di testimonial per celebrare il documentario nell’estasi generale della sala video, compresa quella della creatrice del docufilm Giulia Innocenzi, che si mostra soddisfatta e sorridente nelle foto scattate assieme alla pecora.
Ci siamo postə alcune domande in relazione a queste immagini e al loro riflesso della società specista in cui viviamo e siamo concordi sul fatto che non sia più accettabile scendere a compromessi sulla pelle altrui. Il mondo antispecista che sogniamo non si può costruire con un bieco utilizzo antropocentrico degli altri animali, ma decostruendo la percezione degli stessi come funzionali ed oggettificabili.
Non dimentichiamo, ad esempio, ciò che è avvenuto alla mucca Ercolina a San Remo, di cui si sono serviti gli allevatori per spettacolarizzare il loro sciopero e romanzare il loro rapporto di predominio sulle specie piegate al loro reddito. Addobbare una pecora come fosse un bambolotto di pezza e portarla ad un evento (che si propone, a parole, finalizzato a liberare le altre specie) non fa che fomentare quella stessa convinzione che gli altri animali siano indissolubilmente legati all’umano, da lui fruibili, gestibili e addomesticabili. Non è addomesticando che si Libera. Non è umanizzando che si Libera. Non è sfruttando che si Libera, nemmeno quando lo sfruttamento è decisamente meno cruento ed ingiusto di quello che avviene in luoghi di sopraffazione e smembramento dei corpi.
La domesticazione non è antispecista e questo problema è ben noto a chi si espone contro l’oppressione animale, consapevolmente al fatto che le specie addomesticate rappresentano un’altra sfida contro il dominio dell’uomo sull’animale non umano.
“Sacrificarne una per salvarne 100?” È davvero così che “salveremo” chi è oppresso?
Innanzitutto è ora di scrollarci di dosso il mantello da supereroine e supereroi: gli altri animali non hanno bisogno di essere salvati, ma di essere messi nelle condizioni di liberarsi. E per farlo dobbiamo porre le basi per nutrire una più obiettiva concezione dell’animalità e di tutti soggetti oppressi che sia scevra da pregiudizi e preconcetti, ed imparare rapporti sani con le alterità. Una pecora umanizzata, costretta a sorbire rumori, luci e contatto umano forzato, non fa che rafforzare la visione gerarchica ed antropomorfizzante che ci porta a sottomettere le altre specie alle nostra volontà. Aiutare un soggetto vittima di oppressione non giustifica il suo utilizzo, seppur diverso dalla condizione oppressiva precedente. Questo modus operandi superficiale, incoerente e benaltrista, crea quel pericoloso gioco al ribasso tanto caro a tutte quelle realtà mercificanti che si definiscono “etiche” e che guadagnano dal giro di vite sfruttate al grido di “Benessere animale!”. Una diversa relazione tra animali umani e d’altra specie la si può trovare nei Rifugi, in cui le vittime si riscattano da una condizione di subordinazione e vivono senza vincoli utilitaristici una condizione di semi-autonomia.
Dunque no, non va bene perché “c’è di peggio al trattamento che subiscono gli altri animali”.
Non va bene perché “il fine giustifica i mezzi”.
Non va bene perché “le intenzioni sono buone”.
Non va bene perché “anche gli animali domestici vivono determinate situazioni di socialità umana”.
Non va bene perché “è sopravvissuta a circostanze ignobili”.
Non va bene perché “pretendere troppo ci fa apparire estremistə”.
Non va bene e basta.
Restiamo con l’amaro in bocca, di fronte ad un progetto di per sé problematico sotto tanti punti di vista e molto lontano dall’offrire una chiave di lettura antispecista e di fronte ai metodi con cui questi vengano dati in pasto con leggerezza.
Restiamo con l’amaro in bocca ogni qualvolta chi è oppresso diventa “un mezzo” per combattere quel Sistema che lo considera già tale e che proprio per quello è legittimata ad abusarne.
Ricordiamoci sempre che le pseudo battaglie neutrali, approssimative, non destabilizzanti, sono quelle a cui l’establishment aspira. Perché? Perché sono comode, facilmente controllabili, non pretendono di sconvolgere e cambiare una cultura profondamente discriminante, ma al più di modificarla quanto basta affinché chi è abusatə lo sia di meno, e chi abusa lo faccia meno, senza perdere quell’equilibrio di potere totalmente sbilanciato ed impari.
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