Sono passate diverse settimane dall’uscita del docufilm Food For Profit e l’hype attorno alla pellicola non accenna a diminuire. Le sale cinematografiche, dati alla mano, continuano a programmare proiezioni, spinte principalmente dal sostegno di cittadini e associazioni sensibili alla causa animale e ambientale.
Se da una parte questa notizia potrebbe sembrare un segno positivo, indicando un minimo interesse da parte di coloro che consumano corpi di altri animali per i motivi più disparati, spesso senza comprendere le circostanze tremende in cui questi individui vivono e muoiono all’interno dei sistemi di allevamento. Dall’altra è stato accolto con ovazioni eccessive e sopravvalutato entusiasmo da quella frangia di veganismo mainstream che abbraccia sempre acriticamente qualsiasi cosa si muova in direzione dei “diritti animali”.
Proprio la mancanza di senso critico da parte di chi dovrebbe osservare con sguardo distaccato ogni fenomeno che interessa la questione animale, per meglio capirne gli intenti o svelarne i punti deboli, ha trascurato diversi episodi incompatibili con un reale perseguimento della liberazione degli altri animali (un po’ come quando esce un nuovo prodotto vegetale di una multinazionale senza riconoscere ed esaminare le dinamiche predatorie in cui questa si muove).
Tale ambiguità è accentuata anche dal fatto che il docufilm di Giulia Innocenzi si concentra esclusivamente sugli allevamenti intensivi senza fornire alla fine della visione un chiaro invito all’azione, individuale e collettivo, prendendo una posizione ferma contro TUTTE le forme di allevamento e sostenendo un modello di produzione vegetale.
Perché queste involontarie(?) lacune di Food For Profit fanno storcere il naso?
Principalmente lasciano troppo margine all’interpretazione personale, ancorata all’idea che gli allevamenti intensivi siano il male unico e assoluto e che, per esclusione, gli estensivi/bio/brado/al pascolo siano la soluzione al problema. Ora, non abbiamo spazio sufficiente per entrare nel dettaglio di tali affermazioni, basti sapere però che l’allevamento estensivo rimane impraticabile a causa della mancanza di terreno sufficiente per allevare animali “da reddito”. Oltretutto il prezzo dei corpi smembrati e ridotti a pezzi acquisterebbe un valore elevatissimo, privilegiando esclusivamente le classi sociali che potranno permettersi tali “prodotti”. Senza girarci troppo attorno, da una prospettiva antispecista questa scelta produttiva non è da prendere nemmeno in considerazione.
Lasciando tutto il peso dello sfruttamento animale sulle spalle dell’allevamento zootecnico industriale, si è innescato un meccanismo perverso di compensazione messo in pratica da coloro che traggono profitto dall’allevamento (autodefinitosi) “buono”, condannando apertamente le pratiche denunciate dal docufilm e mettendosi in contrapposizione a quello “cattivo”. Quando in realtà dietro tanti allevamenti a “conduzione familiare” si nasconde la mano delle mafie, sempre in prima fila quando si tratta di estorcere profitto da qualsiasi business, soprattutto nelle Regioni dove non esistono allevamenti intensivi.
Ora, al netto del fatto che non esistono allevamenti etici e buoni (e non stiamo qui a spiegare il perché, sempre per questioni di spazio) non sorprende che alcune proiezioni recenti siano state organizzate proprio da associazioni di categoria cui unico interesse è di estrarre capitale dagli altri animali, dipingendosi come attente al loro benessere ma soprattutto al “nostro” e al Pianeta (come Slow Food che sponsorizza una proiezione ad Agrigento) o associazioni agricole contro l’agribusiness che però tendono a riqualificare e romanticizzare certe figure di dominio (Campi Aperti a Bologna, che organizza la visione del film mentre in calendario ha in programma anche un evento per “salvare” un pastore in difficoltà).
Oppure di proiezioni in cui l’aperitivo è vegetariano (Sala San Luigi, Forlì) o addirittura l’assurdità di poter scegliere il panino “carnivoro” (Cinema Nickelodeon, Genova) in collaborazione con una macelleria (Macelli44). Quest’ultima segnalata a chi distribuisce la pellicola che ha prontamente eliminato la proiezione di Food For Profit dal cinema in questione.
Ecco questi sono solo alcuni esempi passati sotto al nostro naso che stanno evidenziando come la visione parziale di un problema, il sistema produttivo intensivo, se trattato in modo opaco presta il fianco a codificazioni alternative, di comodo, in grado di generare fraintendimenti sugli approcci di azione, creando interpretazioni modulate in base al guadagno delle attività di sfruttamento dei corpi di altre specie.
Una soluzione plausibile e facilmente realizzabile per superare l’ostacolo creato da questo vuoto sarebbe di riuscire a costruire un dibattito antispecista alla fine di ogni proiezione. Avere l’opportunità di confrontarsi con attivistə, teorichə, etologə, agricoltori/trici con una prospettiva chiara sulla direzione da intraprendere sia nell’immediato che nel medio e lungo periodo. E sappiamo che in diversi casi ciò è accaduto.
Bisogna quindi mostrare l’esistenza di una prospettiva diversa, biocentrica, che tenga in considerazione il punto di vista di chi è oppresso in modo sistemico, senza fare sconti a chi vuole mantenere intatto lo status di dominio sugli altri animali o prova ad annacquare e a delegittimare la potenza dirompente e l’impatto che il superamento di certi modelli di produzione e sfruttamento avrà sulla società umana del futuro.
#foodforprofit #allevamenti #carne #benessereanimale #antispecismo #slowfood #campiaperti #vegan